Recentemente il Tribunale di Avellino con la sentenza datata 5.ottobre 2021 è tornato ad occuparsi della fallibilità delle imprese individuali o degli imprenditori collettivi cancellati dal registro delle imprese, in caso di prosecuzione dell’attività di impresa tramite costituzione di una nuova società.

L’art. 10 comma 2 R.D. 16.3.1942 n. 167 in applicazione del principio di effettività riconosce al creditore o al pubblico ministero la possibilità di estendere il termine di fallibilità dell’imprenditore iscritto nel registro delle imprese anche oltre l’anno dalla formale cancellazione, purchè sia dimostrata, anche attraverso il compimento di uno o più atti, l’ulteriore prosecuzione dell’attività di impresa.

Al riguardo si evidenzia che l’art. 10 comma 2 R.D. 16.3.1942 n. 167, al fine della declaratoria di fallimento dell’imprenditore che, sebbene cancellato dal registro delle imprese, prosegua la sua attività presuppone che le attività economiche poste in essere post cancellazione siano riferibili al medesimo soggetto imprenditoriale e  siano intrinsecamente identiche a quelle proprie dell’attività imprenditoriale precedente, dovendosi pertanto distinguere il caso dell’imprenditore che abbia continuato a svolgere la precedente attività in proprio dal caso di chi abbia costituito, pur non figurando formalmente fra i soci, una nuova organizzazione collettiva (società di fatto) operante nel medesimo settore commerciale.

In particolare il Tribunale di Avellino ha precisato che “l’onere probatorio che l’art. 10 co. 2 l.f. pone a carico del creditore istante consiste nella dimostrazione di uno o più atti concreti che siano eziologicamente collegati all’attività imprenditoriale svolta dal debitore al momento della sua formale cancellazione dal registro delle imprese, atti dunque cronologicamente successivi a tale momento e che siano espressione di un immutato ed omogeneo profilo imprenditoriale, del quale permangano dunque i tratti distintivi della professionalità, continuità ed organizzazione del lavoro e dei fattori della produzione; ne consegue che la mera perdurante  formale intestazione di beni e di contratti riferibili all’azienda e persino la loro concessione in godimento a terzi … non diversamente dalla permanente titolarità di crediti non riscossi, rappresentano circostanze neutre, inidonee cioè a configurare la prosecuzione di fatto dell’attività di impresa, non integrando invero il “concreto esercizio” di quest’ultima”.

Ne consegue che nel caso dell’art. 10 comma 2 R.D. 16.3.1942 n. 167 “occorre la dimostrazione dell’assenza di ogni reale dicotomia fra le figure coinvolte in apparente successione nello svolgimento dell’impresa, l’imprenditore individuale cessato e il soggetto societario utilizzato quale schermo per la prosecuzione dell’attività e solo formalmente intestatario della stessa, dovendo, in definitiva, provarsi la sostanziale continuità dell’attività imprenditoriale tanto sotto il profilo oggettivo quanto soggettivo” .

Da un punto vista dell’onere probatorio compete, quindi, al creditore o al pubblico ministero superare la presunzione iuris tantum di coincidenza della cessazione dell’attività economica con la formale cancellazione dal registro delle imprese, fornendo la dimostrazione dello svolgimento da parte dell’imprenditore “cessato” di attività anche meramente liquidatorie, purchè sostanzialmente identiche a quelle svolte in precedenza, che dovrebbero poter “estrinsecarsi in rilevanti atti di gestione, relazioni commerciali con precedenti clienti e fornitori  apporto diretto di risorse economiche”.

Il testo integrale della sentenza è pubblicato su www.ilcaso.it 

Dottoressa Carla Eugenia Ramella, avvocato consulente in diritto societario, diritto fallimentare e bancario, partner di Studio Commercialisti Associati Fiammarelli & Partners.