Il lavoro certo non manca, anzi. Con l’arrivo della pandemia, la categoria è stata sicuramente tra quelle ‘immerse’ di lavoro. Eppure, per paradosso, a mancare è la forza lavoro. Una vera e propria carenza di ‘candidati’, che per i commercialisti è diventata un problema e sempre più serio. A dirlo, è proprio l’Unione dei Giovani Dottori Commercialisti che ha stimato il calo dei ‘nuovi’ che si affacciano alla professione.

Dati alla mano: se al 1 gennaio del 2019 c’erano quasi 14mila iscritti al registro del tirocini, un anno esatto dopo il calo è stato del 9,8%, con una differenza di 1345 giovani in meno. Uno strappo che il Covid non ha fatto altro che corroborare nella possibile ricucita.

Tra le varie cause, possibili o ipotizzabili, c’è l’aumento quasi esponenziale della mole di lavoro, con una normativa sempre più complicata e ingente, oltre al fatto che, come riporta proprio l’Unione dei Giovani Commercialisti, la categoria dimostra una scarsa unità. Il tutto si trasforma “in una forte concorrenza al ribasso sui prezzi tra gli studi e i singoli, con la concorrenza dell’abusivismo”, spiega in un’intervista Matteo De Lise, Presidente Unione Nazionale Giovani Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili e Consigliere dell’Ordine Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Napoli. 

“Troppi interpretano la professione alla vecchia maniera”, continua De Lise. “Siamo di fronte a cambiamenti epocali per la categoria, che la pandemia ha accelerato con un salto di un anno paragonabile a dieci”. Un ruolo dunque, quello del commercialista, che sta cambiando e che volenti o nolenti continuerà a cambiare, trasformando il modus operandi per chiunque eserciti questa professione. E che, soprattutto, non attira certo i giovani desiderosi di confrontarsi con un ambiente sempre più stimolante.

Se il “tasso di sostituzione dei dottori commercialisti è molto basso”, spiega De Lise, forse si deve alla situazione che “troppi studi devono diventare sexy: non devono cercare i giovani, ma attirarli. Dopo la pandemia, i giovani non sono più disposti ai sacrifici fini a sé stessi: non vogliono fermarsi fino a tarda sera in studio, ma chiedono flessibilità, equilibrio con la vita privata. In tantissimi casi, invece, non ci sono piani almeno triennali di sviluppo delle carriere dei giovani collaboratori, dove si va a naso senza avere un disegno per lo sviluppo del fatturato ma si seguono ciecamente le scadenze e poco più”.

“E non c’è futuro per gli studi di singoli professionisti. Questi dovranno associarsi, sottoscrivere contratti di rete per rispondere alle esigenze delle Pmi. Gli imprenditori chiedono che i professionisti siano specializzati e pretendono di avere un unico interlocutore per affrontare le diverse problematiche di loro interesse. Sono disposti a pagare per la consulenza a valore aggiunto, non più per gli adempimenti. Quindi gli studi devono diventare società di servizi che ingloberanno più specializzazioni e diverse figure professionali, dal commercialista all’avvocato al consulente del lavoro”, spiega Mario Catarozzo, consulente del lavoro, in un’intervista a La Repubblica (titolo: “Professioni in crisi, mancano i giovani commercialisti. “Gli studi devono diventare più sexy”, da La Repubblica del 21 agosto 2021, autore Raffaele Ricciardi)

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